«Perché è qui?» chiese Mirissa già intuendo la risposta.
«Ci è sembrato un simbolo molto appropriato. Gli Egiziani credevano che se si eseguivano certi riti il defunto avrebbe continuato a vivere in un altro mondo. Nient’altro che una superstizione, naturalmente… eppure noi l’abbiamo resa vera.»
Ma non come io avrei voluto, pensò tristemente Mirissa. Fissando i neri occhi del re giovinetto che la guardavano dalla maschera d’oro incorruttibile, si stentava a credere che fosse solo una meravigliosa opera d’arte e non una persona viva.
Mirissa non riusciva a distogliere gli occhi da quello sguardo calmo eppure ipnotico che la fissava attraverso i secoli. Ancora una volta tese la mano e toccò la guancia d’oro. Il metallo prezioso le richiamò d’un tratto alla mente una poesia che aveva trovato negli Archivi del Primo Atterraggio, quando col computer aveva passato in rassegna la letteratura dei secoli precedenti alla ricerca di qualche parola di consolazione. La maggior parte dei versi che il computer aveva trovato non erano adatti alla circostanza, ma c’era un distico («Autore ignoto?1800–2100») che invece si addiceva perfettamente:
Riportano lucente a chi l’ha coniata la lega dell’uomo, I giovani che muoiono nel fiore dell’età e non saranno vecchi mai.
Loren aspettò con pazienza che Mirissa finisse di meditare. Quindi inserì una tessera in una fessura quasi invisibile posta accanto alla maschera mortuaria e una porta circolare si aprì senza rumore.
Era strano trovare un guardaroba zeppo di pellicce a bordo di un’astronave, ma Mirissa ne comprendeva la necessità. La temperatura si era già abbassata di parecchio, e lei rabbrividì.
Loren la aiutò a indossare una tuta termica, cosa non facilissima, a gravità zero, e quindi avanzarono fluttuando verso un’apertura circolare chiusa da una lastra di vetro smerigliato posta in fondo al guardaroba. La lastra di cristallo si spalancò verso di loro come un vetro di orologio che si apre, e ne uscì un soffio di aria così fredda come Mirissa non aveva non solo mai sperimentato, ma neppure immaginato. Nuvolette di vapore si condensarono nell’aria danzando attorno a lei quasi fossero fantasmi.
Mirissa guardò Loren come per dire: «Certamente non vorrai che io entri là dentro!».
Lui la prese per il braccio e con voce rassicurante disse: «Non preoccuparti. La tuta ti terrà calda, e tra qualche minuto non sentirai più il freddo sulla faccia».
Mirissa ne dubitava; ma poco dopo dovette ammettere che Loren aveva ragione. Lo seguì attraverso la porta circolare, respirando sulle prime con grande prudenza, ma trovando l’esperienza stranamente stimolante. Per la prima volta capì cosa aveva spinto gli uomini a esplorare le regioni polari della Terra.
E con un minimo sforzo dell’immaginazione pareva proprio di trovarsi laggiù, in un universo gelido e bianco di neve. Tutto intorno a lei vi erano come dei favi luccicanti che sembravano fatti di ghiaccio e che formavano migliaia di cellette esagonali. Sembrava quasi una copia in miniatura dello scudo della Magellano — tranne che qui le singole unità avevano solo un metro di diametro, ed erano collegate tra loro da grovigli di tubi e di cavi.
Eccoli dunque, addormentati intorno a lei, le centinaia di migliaia di coloni per cui la Terra era ancora un ricordo recentissimo. Cosa sognavano, si chiese, non ancora a metà del loro sonno di cinque secoli?
Si sognava in quella informe terra di nessuno che si stendeva tra la vita e la morte? Loren sosteneva di no, ma come esserne certi?
Mirissa aveva visto negli audiovisivi le api tutte intente alle loro misteriose faccende nell’alveare; e le pareva di essere un’ape umana mentre seguiva Loren afferrandosi alle guide che correvano lungo tutto il grande favo. Ormai si muoveva benissimo in assenza di gravità e non sentiva più freddo. Anzi non sentiva nemmeno più il corpo, e ci voleva uno sforzo di volontà per convincersi che quello non era un sogno da cui a un certo punto si sarebbe svegliata.
Non vi erano nomi a contraddistinguere una cella dall’altra, ma codici alfanumerici; e Loren andò dritto alla cella H-354. Bastò sfiorare un pulsante perché il contenitore di vetro e metallo scorresse in avanti lungo le guide telescopiche mostrando la donna addormentata.
Non era bella, sebbene non si potesse giudicare bene la bellezza di una donna priva di capelli. Aveva la carnagione di un colore che Mirissa non aveva mai visto e che sapeva essere diventato molto raro sulla Terra: era di un nero talmente cupo da avere quasi una sfumatura azzurrina. E la pelle era così uniforme e perfetta che Mirissa ne provò invidia; in un lampo vide con gli occhi della mente due corpi allacciati, ebano e avorio… un’immagine che, lo sapeva, l’avrebbe tormentata negli anni a venire.
Di nuovo guardò quel volto. Anche sprofondato nel sonno secolare, mostrava decisione e intelligenza. Saremmo potute diventare amiche? si chiese Mirissa. Non credo; siamo troppo simili.
Così tu sei Kitani, e porterai il figlio primogenito di Loren tra le stelle.
Ma sarà davvero il primogenito, visto che nascerà secoli e secoli dopo il mio? Primo o secondogenito, gli auguro comunque ogni bene…
Era un po’ tramortita, e non solo per il freddo, quando la porta di cristallo si chiuse alle loro spalle. Loren la ricondusse nel corridoio, oltre il Guardiano.
Ancora una volta Mirissa sfiorò la guancia dell’immortale ragazzo d’oro.
Stupefatta, per un attimo la sentì calda sotto le dita, ma subito capì che il suo corpo non era ancora tornato alla temperatura normale.
Sarebbe bastato qualche minuto soltanto, ma quanto tempo ci sarebbe voluto, si chiese, perché si sciogliesse il ghiaccio che aveva intorno al cuore?
54. Commiato
Questa è l’ultima volta che parliamo insieme, Evelyn, prima che io cominci il mio sonno più lungo. Sono ancora su Thalassa, ma la navetta partirà tra pochi minuti, i miei compiti sono finiti — fino al prossimo atterraggio, tra trecento anni…
Sono molto triste perché ho appena detto addio alla mia più cara amica su questo mondo, Mirissa Leonidas. Come ti sarebbe piaciuta! È forse la persona più intelligente che abbia conosciuto su Thalassa, e abbiamo fatto lunghe chiacchierate, io e lei — anche se, ho paura, per lo più si è trattato di monologhi miei, quelli che tu spesso mi rimproveravi…
Mi ha fatto delle domande sulla divinità, naturalmente; ma alla sua domanda più acuta non ho saputo forse dare risposta.
Poco dopo la morte del fratello che tanto amava, mi ha chiesto: «A cosa serve il dolore? Ha una funzione biologica?».
Strano che a me non sia mai venuto in mente di pormi una domanda del genere! Possiamo concepire benissimo una specie intelligente che funzioni perfettamente senza che il ricordo dei defunti provochi particolari emozioni, o anche che non li ricordi affatto. Sarebbe una civiltà molto lontana da quella umana, ma potrebbe sopravvivere benissimo come facevano le termiti e le formiche sulla Terra.
Forse che il dolore sia una conseguenza accidentale — e, chissà, patologica — dell’amore, che ovviamente ha una funzione biologica essenziale? È un pensiero bizzarro e inquietante. Eppure sono proprio le nostre emozioni, i nostri sentimenti, che fanno di noi degli esseri umani; chi vorrebbe rinunciarvi, anche sapendo che ogni nuovo amore è un altro ostaggio in mano a due terroristi, il Tempo e il Fato?
Spesso ha voluto parlare di te, Evelyn. Non capiva come un uomo possa amare un’unica donna per tutta la vita senza nemmeno cercarsene un’altra quando questa non c’è più. Una volta l’ho provocata dicendo che la fedeltà era estranea ai Thalassani almeno quanto la gelosia; lei ha ribattuto che, perdendo l’una e l’altra, ne hanno ricavato complessivamente un vantaggio.