A parte qualche sporadica incursione attraverso l’interfaccia aria-acqua, gli scorpioni avrebbero potuto trascorrere tutta la loro storia nell’acqua, perfettamente adattati com’erano a quell’ambiente. Ma, a differenza delle formiche e delle termiti, ancora non avevano imboccato un vicolo cieco evolutivo. Ancora potevano reagire al cambiamento.
E nel loro mondo d’acqua c’era stato effettivamente un cambiamento, sebbene su scala ancora ridottissima. Delle cose meravigliose erano cadute dal cielo. Là dove erano venute, dovevano essercene delle altre. Quando sarebbero stati pronti, gli scorpioni avrebbero cominciato a cercarle.
Non c’era fretta, nel mondo senza tempo del mare thalassano; sarebbero trascorsi molti anni prima che invadessero quell’elemento alieno di cui gli esploratori riferivano cose tanto strane.
Non sapevano che c’erano altri esploratori che tenevano d’occhio loro. E quando alla fine si mossero, la scelta del momento non poteva essere più infelice.
Ebbero infatti la sfortuna di uscire sulla terraferma durante il secondo mandato, incostituzionale ma estremamente energico, del presidente Owen Fletcher.
IX. SAGAN DUE
57. Le voci del tempo
L’astronave Magellano era lontana poche ore luce soltanto quando nacque Kumar Lorenson, ma suo padre era già in ibernazione e non lo seppe se non trecento anni dopo.
Loren pianse pensando che il suo sonno senza sogni era durato per tutta la vita del suo primogenito. Quando riuscì a sopportare quella prova andò a vedere le registrazioni che l’attendevano nelle banche dati. Vide suo figlio crescere e diventare uomo e sentì la sua voce chiamarlo attraverso i secoli e inviargli saluti cui lui non poteva rispondere.
E vide anche (era inevitabile) il lento invecchiare della ragazza ora morta da secoli che aveva tenuto tra le sue braccia solo qualche settimana prima. L’ultimo addio di lei gli giunse da labbra grinzose da molto tempo divenute polvere.
Il suo dolore, sebbene acutissimo, lentamente passò. La luce di un nuovo sole splendeva a prua; e presto vi sarebbe stata un’altra nascita, sul mondo che già stava attirando la Magellano nella sua ultima orbita.
Un giorno il dolore sarebbe scomparso; ma non il ricordo.
La prima versione di questo romanzo, un racconto di trenta cartelle, fu scritta tra il febbraio e l’aprile del 1957 e pubblicata sulla rivista IF (USA) nel giugno del 1958 e su Science Fantasy (GB) nel giugno del 1959. Essa si può forse ritrovare con maggiore facilità nelle raccolte The Other Side of the Sky (1958) e From the Ocean, From the Stars (1962) pubblicate da Harcourt, Brace, Jovanovich.
Nel 1979 sviluppai lo stesso tema ricavandone una breve scaletta cinematografica che apparve sulla rivista OMNI (vol. 3, n. 12, 1980). Essa è poi apparsa nella raccolta illustrata dal titolo The Sentinel (1984) pubblicata da Byron Preiss/Berkley, insieme a un’introduzione in cui se ne spiega l’origine e il modo del tutto imprevisto in cui essa ha portato a 2010: Odissea due.
Questo romanzo è la terza e ultima versione; esso è stato iniziato nel maggio del 1983 e portato a termine nel giugno del 1985.
1 luglio 1985 Colombo, Sri Lanka
Il primo accenno alla possibilità di impiegare le energie dello spazio vuoto a scopo di propulsione si direbbe uno scritto di Shinichi Seike apparso nel 1969 (Quantum electric space vehicle, Ottavo Simposio sulla Tecnologia e le Scienze Spaziali, Tokyo).
Dieci anni dopo, H.D. Froning, della McDonnell Douglas Astronautics, presentò l’idea alla Conferenza di Studi Interstellari delle Società Interplanetarie Britanniche, Londra (settembre 1979) e pubblicò subito dopo due contributi: «Propulsion Requirements for a Quantum Interstellar Ramjet» (JBIS, vol. 33, 1980) e «Investigation of a quantum ramjet for interstellar flight» (AIAA Preprint 81-1534, 1981).
A parte gli innumerevoli inventori di generici «motori spaziali», il primo autore che impiega l’idea in un romanzo è il dottor Charles Sheffield, capo ricercatore della Earth Satellite Corporation; egli analizza i fondamenti teorici del «motore quantico» (o, come lui lo chiama, di un «vacuum energy drive») nel romanzo The McAndrews Chronicles (rivista Analog 1981; Tor, 1983).
Richard Feynman ha calcolato — molto grossolanamente, come lui stesso ammette — che ogni centimetro cubico di spazio vuoto contenga energia a sufficienza per far evaporare tutti gli oceani della Terra. Un’altra stima a opera di John Wheeler dà una cifra di circa settantanove ordini di grandezza maggiore. Quando due tra i massimi fisici viventi si trovano in disaccordo su una cosuccia quale settantanove zeri, noialtri saremo giustificati se mostriamo un certo scetticismo; ma può se non altro risultare interessante la considerazione che lo spazio vuoto contenuto in una lampadina contiene energia a sufficienza per distruggere la Galassia… e forse, con un piccolo sforzo, tutto quanto il cosmo.
In uno scritto che, speriamo, potrebbe assumere un’importanza storica («Extracting electrical energy form the vacuum by cohesion of charged foliated conductors», Physical Review, vol. 30B, pp. 1700–1702, 15 agosto 1984), il dottor R.L. Forward degli Hughes Research Labs ha dimostrato che almeno una minuscola percentuale di questa energia è utilizzabile. Nel caso in cui potesse venire imbrigliata — da chiunque fuorché dagli scrittori di fantascienza — e utilizzata a scopo di propulsione, i problemi tecnici del volo interstellare, o anche intergalattico, sarebbero risolti in gran parte.
Ma forse no. Sono molto grato al dottor Alan Bond per la sua particolareggiata analisi matematica della protezione necessaria a un volo quale è descritto in questo romanzo, e anche per avermi fatto notare che la forma più vantaggiosa che tale protezione dovrebbe assumere è quella di un cono molto schiacciato. Potremmo benissimo accorgerci che il vincolo più importante del volo interstellare ad alta velocità non è tanto la questione dell’energia necessaria, quanto il problema dell’ablazione della massa dello scudo a opera dei granelli di polvere, e dell’evaporazione a opera dei protoni.
Si può ritrovare la storia — nonché le basi teoriche dell’«ascensore spaziale» nella mia comunicazione al Tredicesimo Congresso della Federazione Astronautica Internazionale, Monaco 1979, dal titolo «The Space Elevator: ‘Thought Experiment’ or Key to Universe?» (ristampato in Advances in Earth Orientated Applications of Space Technology, vol. I, no. 1, 1981, pp. 39–48, nonché in Ascent to Orbit, John Wiley, 1984).
Inoltre ho sviluppato l’idea nel romanzo The Fountains of Paradise (Del Rey, Gollancz, 1978).
I primi esperimenti in questa direzione prevedono l’abbassamento nell’atmosfera di carichi appesi a «pastoie» lunghe un centinaio di chilometri a opera dello Shuttle, e cominceranno più o meno quando verrà pubblicato questo libro.
Devo delle scuse a Jim Ballard e a J.T. Frazer perché ho utilizzato il titolo di due loro libri, diversissimi tra loro, per l’ultimo capitolo di questo.
Un ringraziamento particolare al Diyawadane Nilame e a tutti i sacerdoti del Tempio del Dente a Kandy per avermi cortesemente ammesso alla Camera della Reliquia in momenti particolarmente difficili.