Arthur C. Clarke
Voci di Terra lontana
In nessun luogo in tutto lo spazio o su mille mondi vi saranno uomini che possano condividere la nostra solitudine. Vi sarà forse sapienza; vi sarà potere; chissà dove nello spazio… grandi strumenti sono forse puntati sulla nube fluttuante della nostra desolazione, e chi li ha costruiti si consuma di desiderio quanto noi. Tuttavia, noi abbiamo trovato la nostra risposta nella natura della vita e nei principi dell’evoluzione. Mai vi saranno in altri luoghi, mai, altri uomini…
Ho scritto un libro maledetto, e mi sento innocente come l’agnello.
(The songs of distant Earth, 1986)
Traduzione di Marco e Dida Paggi
Nota dell’autore
Questo romanzo si fonda su un’idea nata quasi trent’anni fa con un racconto che ha lo stesso titolo (e che ora si può trovare nella mia antologia The Other Side of the Sky). Tuttavia, la versione originaria era direttamente — e negativamente — ispirata alla space-opera che allora invadeva gli schermi cinematografici e televisivi. (Domanda: come si chiama l’opposto dell’ispirazione? Espirazione?) Intendiamoci: ho molto apprezzato le cose migliori di Star Trek e l’epicità di Lucas e di Spielberg, per citare solo gli esempi più famosi. Si tratta però più di fantasy che di fantascienza vera e propria. Possiamo dirci ormai quasi del tutto certi che nell’universo a noi noto non è possibile superare la velocità della luce. Anche il sistema stellare più vicino sarà sempre distante parecchi decenni se non secoli; non esiste un motore a iperpropulsione che ci possa portare da un episodio all’altro in tempo per la puntata della settimana successiva. Non è così che il grande Regista lassù nel cielo ha organizzato la sua programmazione.
Da dieci anni a questa parte è mutato in modo significativo, e sorprendente, l’atteggiamento degli scienziati verso la questione dell’intelligenza extraterrestre. Solo negli anni Sessanta l’argomento ha assunto una sua rispettabilità (tranne che presso certi tipi sospetti, ad esempio gli scrittori di fantascienza): l’opera fondamentale a questo proposito è Intelligent Life in the Universe (1966), di Shklovskii e Sagan.
Ma ora abbiamo fatto un passo indietro. Non abbiamo rintracciato alcun segno di vita nel Sistema Solare, né i grandi radiotelescopi hanno captato alcun segnale; e alcuni scienziati hanno cominciato a dire: «Forse siamo davvero soli nell’universo…». Il dottor Frank Tipler, che è forse l’esponente più noto di questa scuola di pensiero, è entrato in polemica (senza dubbio deliberatamente) con i seguaci di Sagan dando a uno dei suoi scritti questo titolo provocatorio: «Non Esistono Extraterrestri Intelligenti». Carl Sagan e altri sostengono (e io mi dichiaro d’accordo con loro) che è di gran lunga troppo presto per saltare a conclusioni così estreme.
Nel frattempo, la polemica infuria; come qualcuno ha detto, entrambe le risposte incutono un reverenziale timore. La disputa potrà essere risolta solo portando delle prove; l’uso della logica, ancorché plausibile, da solo non basta. Vorrei riprendere il dibattito tra dieci o vent’anni, lasciando ai radioastronomi, simili a cercatori d’oro che setacciano la sabbia, il tempo di vagliare tra gli infiniti rumori che ci vengono dal cielo.
Con questo romanzo ho cercato, tra le altre cose, di creare un’opera narrativa realistica sul tema interstellare, così come in Preludio allo spazio (1951) ricorsi a tecnologie note o prevedibili per descrivere il primo viaggio compiuto dagli uomini fuori dalla Terra. Nulla vi è in questo libro che contesti o neghi i principi della fisica che conosciamo; l’unica estrapolazione azzardata è il «motore quantico», la cui paternità è comunque del tutto rispettabile (si veda Fonti e Ringraziamenti). Dovesse invece rivelarsi il sogno di un visionario, rimangono comunque diverse possibilità alternative; e se riuscissimo a immaginarle perfino noi, primitivi del ventesimo secolo, senza dubbio la scienza del futuro scoprirà qualcosa di meglio.
I. THALASSA
1. La spiaggia di Tarna
Mirissa aveva capito che Brant era arrabbiato quando la barca non era ancora uscita dalla risacca. Già la tensione del corpo mentre stava al timone — e anche il fatto stesso che non avesse ceduto la barra per quell’ultimo tratto all’abile Kumar — stavano a dimostrare che era successo qualcosa.
Mirissa uscì da sotto l’ombra delle palme e s’avviò lenta lungo la spiaggia, i piedi che sprofondavano nella sabbia umida. Kumar stava già ammainando la vela. Il «fratellino» di Mirissa, alto ormai quasi quanto lei e parecchio muscoloso, la salutò agitando un braccio. Quante volte lei aveva desiderato che Brant avesse il buon carattere di Kumar, che nulla era capace di scuotere…
Brant non aspettò che la barca s’incagliasse nella sabbia, ma saltò in acqua e, immerso fino al petto, venne a riva sguazzando furibondo. Le mostrò un contorto pezzo di metallo circondato da spezzoni di filo di ferro.
«Guarda!» vociò. «L’hanno fatto un’altra volta!»
Indicò con la mano libera verso nord.
«Questa volta… Questa volta non se la cavano così! E che il sindaco dica quel che diavolo le pare!»
Mirissa si scostò mentre il piccolo catamarano, simile a un pesce primordiale che uscisse per la prima volta sulla terraferma, avanzava lento sulla spiaggia scivolando sopra i rulli. Kumar spense il motore e saltò a terra accanto all’irato Brant.
«Io continuo a ripetergli che dev’essere stato un incidente» disse il giovane. «Forse un’àncora perduta. In fin dei conti, perché quelli dell’Isola Settentrionale dovrebbero fare una cosa simile?»
«Te lo dico io il perché» ribatté Brant. «Perché sono troppo pigri per farsi da sé la tecnologia. Perché hanno paura che noi prendiamo troppi pesci. Perché…»
Vide il sorriso di Kumar e gli gettò contro l’intrico di filo di ferro.
L’altro lo prese al volo.
«Comunque, anche se fosse davvero un incidente, loro non devono gettare l’àncora qui. È zona chiusa, e sulle carte è scritto a chiare lettere VIETATO L’ACCESSO — AREA CHIUSA PER RICERCHE. Quindi bisognerà che protesti ufficialmente.»
Brant s’era già calmato; i suoi eccessi d’ira, anche i peggiori, raramente duravano più di qualche minuto. Per tenerlo dell’umore giusto, Mirissa gli passò lieve le dita lungo la schiena e gli chiese con voce dolce: «Hai preso qualche bel pesce?».
«Naturalmente no» rispose Kumar. «A lui interessano solo le statistiche: chilogrammi per chilowatt, questo genere di cose. Per fortuna avevo portato la mia canna da pesca. Questa sera si mangia tonno.»
Scaricò dalla barca un pesce lungo quasi un metro: un animale affusolato e forte, i cui bei colori stavano rapidamente sbiadendo, gli occhi spenti già appannati dalla morte.
«Non se ne vedono spesso di pesci così» disse con orgoglio. Stavano ammirando la sua preda quando la Storia ritornò a Thalassa, e il mondo semplice e spensierato che avevano conosciuto per tutta la loro giovane vita improvvisamente finì.
Il segno dell’arrivo della Storia era scritto nel cielo, quasi che una mano gigantesca avesse tracciato una riga col gesso da un capo all’altro della volta celeste. Sotto i loro occhi la scia scintillante prese a sfrangiarsi ai bordi rompendosi in masse più piccole di vapori, finché un ponte di neve parve collegare un orizzonte all’altro.