«Posso entrare?»
Loren ebbe un attimo di esitazione. Rifiutare sarebbe stata scortesia, e in fin dei conti erano ansiosi di farsi amica quella gente. Inoltre, cosa forse più importante, conveniva dimostrare subito chi aveva la superiorità tecnologica.
«Ma certo» disse. «Solo stia attento a non toccare nulla.» Brant era troppo preso e non si accorse che l’altro non aveva detto «per favore».
Loren entrò per primo nella minuscola camera stagna dell’aeromobile.
C’era spazio appena sufficiente per due persone, e ci vollero vere e proprie acrobazie per fare entrare Brant nello scafandro a bolla.
«Spero che tra un po’ potremo farne a meno» disse Loren «ma bisogna portarli fino a che non avranno terminato i controlli microbiologici. Tenga gli occhi chiusi durante la procedura di sterilizzazione.»
Brant si rese conto di una debole luminescenza violetta, e poi di un breve sibilo, come di gas. Quindi il portello interno si aprì, e tutti e due entrarono nell’abitacolo.
Sedettero l’uno di fianco all’altro, i movimenti per nulla impediti dalla pellicola robusta ma quasi invisibile che li proteggeva. Eppure li separava l’uno dall’altro con tanta efficacia che avrebbero potuto appartenere a due mondi diversi — come per molti versi era in realtà.
Brant imparava in fretta, dovette riconoscere Loren. Sarebbe stato capace di pilotare il veicolo nel giro di qualche ora, anche se non sarebbe riuscito mai a capire l’aspetto teorico. Ma in quanto a questo, era cosa ben nota che solo un pugno di uomini aveva capito davvero la geodinamica del superspazio; e questi erano morti da alcuni secoli.
In breve tempo s’immersero talmente nei loro discorsi tecnici da dimenticarsi del mondo esterno. D’un tratto una voce un po’ preoccupata chiamò dal quadro comandi. «Loren? Qui la nave. Che succede? Non vi sentiamo da mezz’ora.»
Senza fretta Loren prese il microfono.
«Visto che ci state tenendo d’occhio su sei canali video e cinque audio, state un po’ esagerando.» Sperava che Brant avesse capito l’antifona:
teniamo la situazione in pugno, e siamo pronti a tutto. «Ora vi collego con Moses… è lui che parla, come al solito.»
Attraverso il finestrino ricurvo si vedevano Kaldor e la Waldron immersi in un’animata discussione, con il consigliere Simmons che interveniva di quando in quando. Loren fece scattare un interruttore e le voci amplificate risuonarono d’un tratto nella cabina, più forti che se le persone fossero state lì con loro.
«… La nostra ospitalità. Ma lei si rende conto, naturalmente, che questo mondo è piccolissimo, almeno quanto a terre emerse. Quante persone avete detto che vi sono a bordo della vostra nave?»
«Non ho menzionato una cifra precisa, signora. Comunque, solo pochissimi di noi metteranno piede su Thalassa, malgrado sia un mondo bellissimo. Io comprendo pienamente la sua, ah, preoccupazione, ma non è il caso di nutrire alcun timore. Nel giro di un paio d’anni, se tutto va come dovrebbe, riprenderemo il nostro viaggio.
«E poi non siamo venuti qui solo per il piacere di farvi visita. Anzi, non ci aspettavamo di trovare gente qui. Un’astronave che va alla metà della velocità della luce non si ferma se non per ottimi motivi. Voi avete una cosa di cui noi abbiamo bisogno, e noi possiamo darvi qualche altra cosa in cambio.»
«Che cosa, se è lecito?»
«Noi possiamo darvi, se li volete, l’arte e la scienza degli ultimi secoli dell’umanità. Ma vi avverto: considerate attentamente ciò che un simile dono può fare alla vostra cultura. Potrebbe non essere saggio accettare tutto ciò che abbiamo da offrirvi.»
«Apprezzo la sua franchezza… e la sua saggezza. Questi sono tesori che non hanno prezzo. Cosa potremmo mai avere noi da offrirvi in cambio?»
Kaldor rise forte. «Per fortuna, questo non è un problema. Non ve ne accorgerete nemmeno se lo prendessimo senza dirvi nulla.
«Tutto ciò che vogliamo da Thalassa sono centomila tonnellate d’acqua.
O, per essere più precisi, di ghiaccio.»
11. Delegazione
Il presidente di Thalassa aveva assunto l’incarico da due mesi soltanto e ancora non era riuscito a riconciliarsi con il suo destino. Ma non poteva farci nulla, solo far buon viso a cattiva sorte per i tre anni di durata della carica. Di sicuro era inutile chiedere un controllo; il programma di selezione comportava la generazione e la ricombinazione di numeri casuali di mille cifre: quanto di più vicino al puro caso l’ingegnosità umana potesse inventare.
C’erano soltanto cinque modi per evitare di venire incastrati nel palazzo presidenziale (venti stanze, una delle quali grande abbastanza da accogliere cento ospiti). Avere meno di trent’anni o più di settanta; essere affetti da un male incurabile; non essere nel pieno possesso delle facoltà mentali; aver commesso un crimine grave. L’unica possibilità che realisticamente si offriva al presidente Edgar Farradine era quest’ultima, ed egli l’aveva presa in seria considerazione.
Eppure era costretto ad ammettere che, nonostante il grave incomodo personale che gli arrecava la carica, il sistema era forse la miglior forma di governo che l’umanità avesse mai escogitato. Al pianeta madre erano stati necessari diecimila anni circa per perfezionarlo attraverso un processo per prove ed errori — spesso spaventosi.
Quando l’intera popolazione adulta poté impadronirsi di tutta la cultura che era alla portata delle sue capacità intellettuali (e talvolta anche di quella che, ahimè, le trascendeva), fu finalmente possibile la vera democrazia. L’ultimo passo da compiere era quello di sviluppare comunicazioni personali istantanee collegate a computer centrali. Secondo quanto ricostruito dagli storici, la prima vera democrazia fu stabilita sulla Terra nell’anno (terrestre) 2011 in un luogo chiamato Nuova Zelanda.
Dopo di che, innalzare l’uno o l’altro a capo dello stato divenne cosa di importanza solo relativa. Una volta che fu da tutti accettato, il principio secondo cui chiunque mirasse deliberatamente alla carica ne era in modo automatico ritenuto indegno, praticamente ogni sistema poteva servire allo scopo. E l’estrazione a sorte era il sistema più semplice.
«Signor presidente» disse la segretaria di Gabinetto «i visitatori attendono in biblioteca.»
«Grazie, Lisa. E senza quei loro scafandri a bolla?»
«Sì… i medici hanno deciso che non c’è nessun pericolo. Ma bisogna che l’avverta, signore. Costoro hanno uno strano, ah, uno strano odore.»
«Krakan! Come sarebbe a dire?»
La segretaria sorrise.
«Oh, non è sgradevole… almeno, io non lo trovo sgradevole. Credo che c’entri con quello che mangiano; dopo mille anni, forse i nostri metabolismi sono diventati un po’ diversi. «Aromatico» è forse l’aggettivo più adatto per definirlo, signore.»
Il presidente non era sicuro di aver capito bene ed era sul punto di chiedere ulteriori particolari quando gli venne in mente una cosa.
«E che tipo d’odore avremo noi per loro, secondo lei?» domandò.
Con suo grande sollievo i cinque ospiti non mostrarono di essere particolarmente disturbati quando gli furono presentati uno alla volta. Ma la segretaria, Elisabeth Ishihara, aveva fatto bene ad avvertirlo; ora capiva cosa significava, in quel contesto, l’aggettivo «aromatico». E la segretaria aveva visto giusto anche nel definire il loro odore non sgradevole; infatti ricordava al presidente le spezie che sua moglie usava quando veniva il suo turno di cucinare per tutto il palazzo.
Prendendo posto a metà del grande tavolo a ferro di cavallo, il presidente di Thalassa si trovò a fare ironiche considerazioni sul Caso e sul Destino — argomenti entrambi che in passato non l’avevano mai soverchiamente preoccupato. Ma era stato il Caso, il Caso puro e semplice, a innalzarlo alla carica che rivestiva. E ora il caso, o il Destino suo fratello, aveva colpito ancora. Davvero strano che proprio lui, un fabbricante di articoli sportivi senza nessuna ambizione, fosse stato prescelto a presiedere quella storica riunione! Eppure, qualcuno doveva ben farlo; e anzi doveva ammettere che cominciava a divertirsi. Tanto per cominciare, nessuno poteva impedirgli di tenere il suo discorso di benvenuto…