«Perché portarsi dietro quell’affare?» aveva detto indicando il bracciale con tasti e quadranti che lui aveva al polso sinistro. «Certe volte è bello isolarsi dagli altri.»
«È vero, ma il regolamento della nave è molto rigoroso Se il capitano Bey mi cercasse e io non rispondessi…»
«Che farebbe? Ti metterebbe ai ferri?»
«Meglio ai ferri che la predica. Comunque, ho messo il comunicatore sul modo sonno. Se mi chiamano, vorrà dire che c’è qualcosa di davvero urgente… e in tal caso mi dispiacerebbe non poter rispondere.»
Come tutti i Terrestri da almeno mille anni a quella parte, Loren si sarebbe sentito meno a disagio senza i vestiti che senza il comunicatore.
Sulla Terra si raccontavano terribili storie di gente distratta o imprudente che era morta — spesso a pochi metri dalla salvezza — solo perché non aveva potuto premere il tasto rosso con la scritta EMERGENZA.
La pista ciclabile era stata tracciata secondo criteri d’economia, e non certo per permettere il passaggio del traffico pesante. Era larga meno di un metro, e in un primo momento all’inesperto Loren era sembrato di procedere lungo una fune sospesa. Per evitare di cadere, aveva dovuto tenere gli occhi fissi sulla schiena di Mirissa (obbligo tutt’altro che sgradevole). Ma dopo qualche chilometro s’era fatto più sicuro e aveva potuto godersi anche altri panorami. Avessero incontrato qualcuno che andava nella direzione opposta, sarebbero stati costretti a scendere di sella tutti quanti; il pensiero di uno scontro a una velocità complessiva di cinquanta e passa chilometri all’ora era insopportabile. Avrebbero dovuto fare un bel pezzo a piedi per tornare a casa, e per di più spingendo a mano le biciclette danneggiate…
Parlavano molto poco; solo Mirissa, di quando in quando, apriva bocca per mostrare a Loren un albero dalla forma bizzarra o qualche luogo insolitamente bello. Già quel silenzio era una cosa che Loren non aveva mai sperimentato in tutta la sua vita; sulla Terra era sempre stato circondato da suoni, e la vita di bordo era tutta una sinfonia di rassicuranti rumori meccanici, con qualche allarme ogni tanto da far balzare il cuore in gola.
Fu dunque con sorpresa che a un certo punto udì provenire da un folto d’alberi davanti a loro il ritmo ormai familiare di una musica da ballo thalassana. Poiché la stretta stradina raramente procedeva senza curve per più di cento o duecento metri, non poté vedere da dove proveniva la musica fin quando, superata una curva stretta, si trovò di fronte a una sorta di mostro meccanico che occupava tutta quanta la sede stradale e, suonando, avanzava lentamente verso di loro. Assomigliava a un bulldozer robot. Dovettero smontare per lasciarlo passare, e così facendo Loren si accorse che compito della macchina era la manutenzione della strada.
Aveva notato in precedenza parecchi tratti sconnessi e anche alcune buche piuttosto profonde, e si era chiesto quando l’apposito ente si sarebbe preso la briga di riparare la strada.
«Ma perché la musica?» chiese. «La macchina non può certo apprezzarla.»
Non fece quasi in tempo a finire la battuta che il robot parlò e con voce severa disse: «Si prega di non passare sulla strada finché io non mi sia allontanato di cento metri. La superficie è ancora molle. Si prega di non passare sulla strada finché io non mi sia allontanato di cento metri. La superficie è ancora molle. Grazie».
Mirissa scoppiò a ridere vedendo l’espressione sorpresa di lui.
«Hai ragione, naturalmente. Lui non è molto intelligente. La musica serve ad avvertire la gente che il robot si sta avvicinando.»
«Non sarebbe più efficace un clacson o qualcosa del genere?»
«Forse sì, ma sarebbe così… scostante!»
Tolsero dalla strada le biciclette e attesero che il convoglio di articolati, di unità di controllo e di macchinari passasse lentamente. Loren non seppe resistere alla tentazione di sfiorare con le dita la superficie stradale ancora fresca; calda e lievemente cedevole, sembrava umida ma al tatto era asciutta. Nel giro di pochi secondi divenne dura come roccia; Loren notò che vi era rimasta, appena visibile, l’impronta delle sue dita ed ebbe un pensiero malinconico: «Ecco che ho lasciato la mia impronta su Thalassa… fin quando il robot non ripasserà».
La strada prese a salire e Loren scoprì di possedere nelle cosce e nei polpacci muscoli di cui non aveva prima sospettato l’esistenza. Un motorino ausiliario sarebbe stato il benvenuto, se non che Mirissa non ne aveva voluto sapere dicendo che era un espediente da debosciati. Mirissa non aveva rallentato affatto per la salita, e così Loren non ebbe altra alternativa che darci dentro per tenerle dietro.
Cos’era quel rombo lontano che si sentiva più lontano? Di sicuro non stavano provando dei motori a razzo tra le montagne dell’Isola Meridionale! Il rumore si fece sempre più forte via via che avanzavano lungo la strada; Loren capì di cosa si trattava solo pochi secondi prima di vederne la causa.
Da un punto di vista terrestre, la cascata non era poi un gran che — alta un centinaio di metri, e larga venti. Uno snello ponte di metallo luccicante di spruzzi scavalcava le acque ribollenti al piede della cascata.
Mirissa scese di sella, con gran sollievo di Loren, e lo guardò maliziosa.
«Non noti niente di strano?» gli chiese indicando il panorama.
«Strano in che senso?» disse Loren per ricavare qualche indizio in più.
Non c’era altro da vedere che un ampio tratto di bosco, o foresta che fosse, entro cui, di là della cascata, continuava la strada.
«Gli alberi… gli alberi!»
«Sì? Cos’hanno gli alberi? Io non m’intendo di botanica.»
«Nemmeno io, ma si dovrebbe capire lo stesso. Guardali bene.»
Loren guardò, perplesso. E all’improvviso capì, perché un albero è un’opera di ingegneria naturale, e lui questo era: un ingegnere.
Di là della cascata la vegetazione era come opera di un altro progettista.
Non sapeva quale fosse il nome degli alberi che lo circondavano da questa parte, ma avevano comunque un aspetto familiare, e certamente provenivano dalla Terra… Sì, quella era di sicuro una quercia, e i bei fiori gialli di quel cespuglio li aveva già visti molto tempo prima.
Oltre il ponte, era un altro mondo. Gli alberi — ma erano poi davvero alberi? — avevano un’aria primitiva, incompleta. Alcuni avevano tronchi bassi, a forma di botte, da cui si protendevano pochi rami spinosi; altri erano più simili a enormi felci; altri ancora assomigliavano a gigantesche dita scheletriche, con una corona di peli alle giunture. E non si vedeva un solo fiore…
«Adesso ho capito. Quella è la vegetazione indigena di Thalassa.»
«Sì… e ha lasciato il mare solo pochi milioni di anni fa. Noi chiamiamo questo punto il Grande Spartiacque. Ma più che uno spartiacque è il fronte tra due eserciti, e nessuno sa quale dei due vincerà. Noi speriamo che non vinca né l’uno né l’altro! La vegetazione della Terra e più evoluta, ma quella di Thalassa è meglio adattata alla chimica di questo pianeta. Di quando in quando il fronte si sposta, e una parte cerca d’invadere l’altra.
Allora noi interveniamo con zappe e badili prima che possa rafforzare le nuove posizioni.»
Che strano, pensò Loren attraversando il ponticello con la bicicletta a mano. Per la prima volta da quando sono su Thalassa ho sentito di trovarmi in un mondo alieno…
Quegli alberi goffi, quelle felci primitive, potevano benissimo essere stati la materia prima dei giacimenti di carbone che avevano messo in movimento la rivoluzione industriale, appena in tempo per salvare la specie umana. Non ci voleva molto per immaginare un dinosauro saltar fuori dal sottobosco… Ma poi si ricordò che quando la Terra era stata ricoperta da una vegetazione analoga, mancavano ancora parecchi milioni di anni prima che comparissero quei terribili rettili.
Stavano per rimontare in sella quando Loren esclamò: «Krakan e maledizione!».