34. Retenave
Strano, pensò Owen Fletcher, che io mi chiami come uno degli ammutinati più famosi di tutti i tempi! Non sarò un suo discendente?
Vediamo un po’… Sono passati più di duemila anni da quando presero terra sull’isola Pitcairn… diciamo in cifra tonda cento generazioni…
Fletcher andava molto orgoglioso della capacità che aveva di fare calcoli mentali: erano calcoli elementari, ma comunque questa sua abilità faceva sempre colpo su molti. Da secoli l’Uomo si era limitato a premere qualche tasto quando si trovava di fronte al problema di conoscere quanto fa due più due. Il fatto di sapere a memoria qualche logaritmo e qualche costante matematica l’aiutava molto, e rendeva ancora più misteriosa la sua capacità per coloro che non sapevano come faceva a giungere al risultato. Naturalmente sceglieva solo quel tipo di calcoli che riusciva a svolgere, e poi era molto raro che qualcuno si preoccupasse di andare a controllare il risultato…
Cento generazioni prima, dunque un numero di antenati uguale a due elevato cento. Il logaritmo di due è zero virgola zero uno zero, dunque trenta virgola uno… Dei dell’Olimpo! Un milione di milioni di milioni di milioni di milioni di individui! C’era qualcosa di sbagliato, ovviamente perché nemmeno calcolando dall’inizio dei tempi era mai esistito un tal numero di esseri umani… Certo, il suo conto si fondava sul presupposto che mai due dei suoi ascendenti si fossero riprodotti tra di loro — l’albero genealogico dell’umanità doveva essere inestricabilmente intrecciato — e comunque, dopo cento generazioni, chiunque doveva essere in qualche modo imparentato con chiunque altro.
Non riuscirò mai a dimostrarlo, ma Christian Fletcher dev’essere un mio antenato… e non una, ma cento volte.
Tutto molto interessante, pensò spegnendo lo schermo, così che quelle antiche cronache svanirono nel nulla. Ma io non sono un ammutinato. Io sono uno che ha sottoposto una petizione, che ha avanzato una richiesta del tutto ragionevole. Karl, Ranjit, Bob sono tutti d’accordo… Werner è ancora incerto, ma non ci tradirà. Come vorrei poter parlare agli altri Sabra in ibernazione, e dir loro del bel mondo che abbiamo trovato mentre loro dormono ancora.
Nel frattempo, devo affrontare il capitano…
Il capitano Bey trovava molto sgradevole affrontare una questione che riguardava la sua nave senza sapere chi — o quanti — dei suoi ufficiali o dei membri dell’equipaggio si rivolgevano a lui mediante l’anonimato della RETENAVE. Né vi era modo di rintracciare l’origine di quelle comunicazioni fuori protocollo e anonime, perché tali dovevano restare:
era un elemento per garantire la stabilità sociale appositamente progettato dai geni che in un tempo lontano avevano ideato la Magellano. Veramente aveva accennato alla possibilità di rintracciarle parlando con il responsabile delle comunicazioni, il comandante Rocklynn, ma questi si era mostrato così scandalizzato che il capitano aveva subito lasciato cadere la cosa.
Ecco quindi che il capitano Bey s’era scoperto a scrutare l’espressione della gente, a osservare le facce, ad ascoltare le minime sfumature della voce — e facendo finta che tutto fosse normale, che non fosse successo niente. Forse esagerava, e davvero non era successo niente d’importante.
Però temeva che fosse stato piantato un seme, e che ciò che era nato da quel seme crescesse ogni giorno di più.
La sua prima comunicazione di risposta, che aveva steso dopo essersi consultato con Malina e Kaldor, era stata abbastanza blanda:
DA: CAPITANO A: ANONIMO In risposta alla vostra comunicazione non datata, non ho obiezioni ad aprire una discussione sulle vostre proposte o attraverso RETENAVE o formalmente in Assemblea Generale.
Egli aveva invece obiezioni molto considerevoli, aveva dedicato metà della sua vita adulta ad addestrarsi a sopportare la terribile responsabilità di trapiantare un milione di esseri umani attraverso centoventicinque anni luce. Quella era la sua missione. Se l’aggettivo «sacro» avesse avuto per lui un qualche significato, l’avrebbe usato. Nulla tranne qualche immane disastro capitato alla nave o la scoperta che anche il sole di Sagan Due stava per trasformarsi in nova, l’avrebbe potuto far deflettere da quel suo obiettivo.
Nel frattempo, c’era una linea d’azione da seguire. Forse, com’era accaduto alla ciurma del capitano Bligh, il morale dell’equipaggio si stava facendo pericolosamente basso. Le riparazioni all’impianto di produzione del ghiaccio dopo i non gravi danni provocati dallo tsunami, avevano richiesto il doppio del tempo necessario, e questo era un segno tipico. Il ritmo della nave stava rallentando. Sì, era tempo di rimettersi a far schioccare la frusta.
«Joan» disse alla sua segretaria, trentamila chilometri sotto di lui «voglio un rapporto sullo stato d’avanzamento dei lavori di assemblaggio dello scudo. E dica al capitano Malina che intendo riesaminare con lui i tempi.»
Non sapeva se era possibile issare più di un fiocco di neve al giorno.
Però ci si poteva sempre provare.
35. Convalescenza
Il tenente Horton era un compagno divertente, ma Loren fu lieto di trovarsi solo quando le correnti di elettrofusione gli ebbero finalmente saldato le ossa rotte.
Loren era venuto a sapere, con abbondanza di particolari veramente eccessiva, che il tenente Horton s’era trovato a frequentare certi finocchi dell’Isola Settentrionale nella cui graduatoria d’interessi veniva al secondo posto il surf — fatto utilizzando tavole munite di microgetti — sui cavalloni oceanici. Horton aveva scoperto, e nel modo più doloroso, che era uno sport ancora più pericoloso di quanto sembrasse.
«Strano» l’aveva interrotto Loren nel bel mezzo di reminiscenze irriferibili. «Avrei giurato che tu sei al novanta per cento eterosessuale.»
«Al novantadue per cento, secondo quanto dice il mio profilo psicologico» fece allegramente Horton. «Però mi piace darmi una controllata di quando in quando.»
Il tenente scherzava soltanto a metà. Aveva letto da qualche parte che gli eterosessuali al cento per cento erano così rari da venire considerati casi patologici. Non che ne fosse davvero convinto; però la cosa lo preoccupava un poco nelle rare occasioni in cui gli veniva da pensare alla questione.
Ora Loren era l’unico degente, e inoltre aveva convinto l’infermiera thalassana che la sua presenza non era affatto necessaria — almeno quando Mirissa andava a trovarlo, cosa che avveniva tutti i giorni. L’ufficiale medico Newton, che come molti medici certe volte era di una franchezza imbarazzante, gli aveva detto senza mezzi termini: «Lei ha bisogno di un’altra settimana di convalescenza. Se proprio deve fare l’amore, allora lasci che sia la sua partner a darsi da fare».
Riceveva anche altri visitatori, naturalmente. Erano tutti i benvenuti, tranne due.
La Waldron, essendo sindaco, faceva quel che voleva infischiandosene dell’infermiera e veniva a trovarlo quando meglio le pareva; per fortuna le sue visite non coincisero mai con quelle di Mirissa. La prima volta che la Waldron andò a trovarlo, Loren si finse moribondo: tattica disastrosa, perché gli impedì di evitare certe carezze veramente audaci. La seconda volta, fortunatamente aveva avuto un preavviso di una decina di minuti, il sindaco lo trovò seduto sul letto sostenuto dai cuscini e perfettamente in sé. Purtroppo, per una bizzarra coincidenza, era in corso un complicato test della respirazione, così che il tubo dell’aria che Loren doveva tenere in bocca rese impossibile ogni tentativo di conversazione. Il test ebbe termine trenta secondi dopo che il sindaco si fu congedato.
Brant Falconer venne a trovarlo una volta soltanto, e quell’unica visita fu penosa per entrambi. Conversarono educatamente degli scorpioni di mare, dei progressi dell’impianto di produzione dei fiocchi di neve, della politica dell’Isola Settentrionale… di tutto, insomma, tranne che di Mirissa. Loren capì che Brant era poco disinvolto e anche impacciato, ma l’ultima cosa che si aspettava era che Brant gli porgesse delle scuse. Il visitatore riuscì a farsi uscire qualche parola di bocca, prima di congedarsi.