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«Ma torniamo ad Alfa. Verso la metà del Terzo Millennio era praticamente scomparso. Quasi tutte le menti pensanti erano, alla fine, giunte ad accettare il duro giudizio di Lucrezio: tutte le religioni sono fondamentalmente immorali, perché esse spacciano superstizioni che fanno più male che bene.

«Eppure qualcuna delle antiche religioni riuscì a sopravvivere, sebbene in forma drasticamente alterata, fino agli ultimi giorni della Terra. I Mormoni dell’Ultimo Giorno e le Figlie del Profeta riuscirono addirittura a costruirsi delle navi inseminatrici. Spesso mi domando cosa ne è stato di loro.

«Alfa era caduto in discredito ma restava Omega, il creatore di tutte le cose. Liquidare Omega è meno facile, perché l’universo va in qualche misura spiegato. O no? C’è una vecchia battuta che è più profonda di quanto sembra. Domanda: Ma che ci fa qui l’universo? Risposta: Perché, dove altro dovrebbe essere? E credo che questo basti, per stamattina.»

«Grazie, Moses» disse Mirissa con l’aria un po’ frastornata. «Queste cose le avevi già dette prima, non è vero?»

«Certo, e molte volte. Ma ora devi promettermi una cosa.»

«E cioè?»

«Non credere a nulla di quello che ti ho detto… solo perché l’ho detto io.

Nessun problema filosofico serio si può mai dire definitivamente risolto.

Omega è ancora in circolazione, e certe volte mi chiedo se anche Alfa…»

VII. COME LE SCINTILLE VOLANO IN CIELO

47. Ascensione

Si chiamava Carina; aveva diciotto anni e sebbene fosse la prima volta che usciva in mare di notte con la barca di Kumar, non era certo la prima volta che giaceva tra le braccia di lui. Aveva anzi forse più titolo, tra le molte che si disputavano questo onore, a ritenersi la sua ragazza.

Sebbene il sole fosse tramontato già da due ore, la luna più interna — molto più luminosa e vicina della luna della Terra — era quasi piena e la spiaggia, cinquecento metri lontano, era inondata di una fredda luce azzurrina. Un focherello ardeva sotto le palme, e la festa durava ancora. Si sentiva anche la musica sopra il ronzìo sommesso degli idrogetti che funzionavano a regime minimo. Kumar aveva già conseguito il suo obiettivo più importante e dunque non aveva grande fretta di andare in nessun posto. Tuttavia, da buon marinaio qual era, di quando in quando si staccava dalla ragazza per dare qualche istruzione verbale all’autopilota e per gettare un rapido sguardo all’orizzonte.

Kumar aveva ragione, pensò Carina soddisfatta. L’ondeggiare della barca aveva effettivamente qualcosa di molto erotico, soprattutto quando il ritmo veniva amplificato dal materassino pneumatico su cui giacevano.

Dopo questa esperienza, l’avrebbe ancora soddisfatta fare l’amore sulla terraferma?

E poi Kumar, a differenza di alcuni altri giovani Thalassani di cui avrebbe anche potuto fare il nome, era molto tenero e attento. Non era uno di quegli uomini che pensano solo a soddisfare se stessi; il suo piacere era completo solo quando era condiviso. Quando lui è dentro di me, pensò Carina, ho l’impressione di essere l’unica ragazza del suo universo, anche se so perfettamente che non è vero.

Carina si rendeva vagamente conto che stavano allontanandosi sempre di più dal villaggio, ma ciò non le importava affatto. Avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre e non le sarebbe importato nemmeno se la barca avesse puntato a tutta velocità verso il mare aperto, senza una terra emersa tranne quella che avrebbero ritrovato dopo aver fatto la circumnavigazione del globo. Kumar sapeva quel che faceva. In tutti i sensi. Parte del piacere di lei derivava dalla sicurezza che Kumar ispirava; tra le sue braccia lei non aveva né preoccupazioni né problemi. Il futuro non esisteva; esisteva solo un presente senza tempo.

Eppure il tempo passava lo stesso e ora la luna interna era molto più alta nel cielo. Dopo la passione, le loro labbra stavano ancora esplorando i territori dell’amore quando il ronzìo dell’idrogetto tacque e la barca rallentò fino a fermarsi.

«Ci siamo» disse Kumar con una nota di eccitazione nella voce.

E dove mai potremmo essere arrivati? pensò pigramente Carina mentre Si scioglievano l’uno dalle braccia dell’altra.

Le sembrava fossero passate ore e ore da quando aveva guardato l’ultima volta verso terra. Chissà se era ancora in vista…

Si rialzò lentamente, assecondando il lieve rollìo della barca, e guardò a bocca aperta quel paese incantato che si stendeva là dove non molto tempo prima vi era la squallida palude che con grande speranza ma intempestivo ottimismo era stata battezzata Baia delle Mangrovie.

Non era la prima volta che vedeva i prodotti dell’alta tecnologia; la centrale a fusione e il Replicatore Principale sull’Isola Settentrionale erano molto più grandi e anche più impressionanti. Ma quel labirinto violentemente illuminato di tubi e serbatoi e gru e meccanismi di sollevamento — quell’operoso panorama, tra il cantiere navale e lo stabilimento chimico, che funzionava in silenzio sotto le stelle senza che vi fosse un solo essere umano in vista, colpiva a livello sia visivo sia psicologico.

Kumar gettò l’àncora con un tonfo improvviso che risuonò nel gran silenzio della notte.

«Vieni» le disse con malizia. «Voglio farti vedere una cosa.»

«Ma c’è pericolo?»

«Naturalmente no. Ci sono già stato decine di volte.»

E non da solo, certo, pensò Carina. Ma Kumar era già entrato in acqua prima che lei potesse dire qualcosa.

L’acqua arrivava al petto, e conservava a tal punto il calore del giorno da riuscire quasi fin troppo calda. Quando Carina e Kumar si avviarono verso la spiaggia, la mano nella mano, fu un sollievo sentire sul corpo l’aria fresca della notte. Uscirono dalle onde come moderni Adamo ed Eva cui fossero state date le chiavi di un Eden meccanizzato.

«Non ti preoccupare» disse Kumar. «Conosco bene questo posto. Il dottor Lorenson mi ha spiegato tutto. Ma io ho trovato una cosa che lui di sicuro non conosce.»

Si avviarono seguendo certi tubi avvolti da uno spesso strato isolante tenuti sollevati un metro da terra, e solo ora, per la prima volta, Carina sentì un suono: il pulsare delle pompe che spingevano il fluido refrigerante attraverso il labirinto di tubi e di scambiatori di calore che li circondavano.

A un certo punto giunsero alla famosa vasca in cui era stato trovato lo scorpione di mare. L’acqua era quasi invisibile, coperta com’era dall’intrico della vegetazione marina. Su Thalassa non esistevano rettili, ma le alghe spesse e flessibili fecero venire in mente a Carina un groviglio di serpenti.

Passarono accanto a una serie di condotti di scolo e di saracinesche — in quel momento tutte chiuse — e infine arrivarono a un ampio spiazzo lontano dagli impianti. Fu a questo punto che Kumar fece un gesto di saluto verso l’obiettivo di una telecamera puntata verso di loro. Nessuno riuscì a scoprire, in seguito, perché fosse disattivata proprio nel momento cruciale.

«Queste sono le vasche di congelamento» spiegò Kumar. «Tengono seicento tonnellate, il novantacinque per cento d’acqua e il cinque per cento di alghe. Che c’è di così divertente?»

«Non è divertente… è solo strano» rispose Carina sorridendo. «Ma pensa… una parte della nostra foresta marina arriverà sulle stelle. Chi si sarebbe mai immaginata una cosa del genere? Ma non è questo il motivo per cui mi hai portata qui.»

«No» disse Kumar sottovoce. «Guarda…»

In un primo momento Carina non capì cosa Kumar stesse indicando. Poi la sua mente interpretò l’immagine che palpitava all’estremo limite della sua capacità di visione, e allora capì.