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La navetta si avvicinò all’astronave sopra la faccia di Thalassa illuminata dal sole, così che Mirissa vide la Magellano quando era ancora lontana cento chilometri. Sapeva che era grandissima, ma vista così, luccicante nel sole, sembrava un giocattolo.

Lontana solo dieci chilometri, non sembrava più grande. Il cervello e gli occhi di Mirissa insistevano a voler interpretare come oblò quei cerchietti neri disposti tutti attorno al diametro massimo dell’astronave. Solo quando l’enorme scafo ricurvo torreggiò accanto a lei, la sua mente acconsentì a vederli com’erano, e cioè grandi porte di hangar, una delle quali la navetta stava per varcare.

Loren guardò preoccupato Mirissa che si slacciava la cintura di sicurezza; era quello il momento più pericoloso, quando il passeggero troppo sicuro di sé, libero per la prima volta da ogni sostegno, si accorgeva che la gravità zero non era così piacevole come aveva creduto.

Ma Mirissa pareva perfettamente a suo agio, e si librò nell’aria con disinvoltura attraversando la camera stagna, aiutata dalle lievi spinte di Loren.

«Per fortuna non c’è bisogno di passare per la sezione a una gravità, così non avrai il fastidio di riabituarti due volte. Non devi preoccuparti per la gravità fin quando non sarai tornata su Thalassa.»

Sarebbe stato interessante, pensò Mirissa, visitare i quartieri dell’equipaggio posti tutto intorno alla circonferenza della nave — ma ciò avrebbe comportato interminabili conversazioni e contatti personali, cosa che in quel momento Mirissa non desiderava affatto. Era contenta che il capitano Bey fosse ancora a terra; in questo modo non doveva nemmeno fargli una visita di cortesia per ringraziarlo.

Uscirono dalla camera stagna in un corridoio a sezione circolare che pareva attraversare la nave in tutta la sua lunghezza. Da un lato vi era una scaletta; dall’altro due file di maniglie formate da cappi flessibili cui potersi aggrappare scorrevano lentamente in entrambe le direzioni.

«Non è il posto migliore in cui stare quando siamo in accelerazione» disse Loren. «Infatti allora diventa un pozzo verticale… un pozzo profondo due chilometri. Allora sì che c’è davvero bisogno o della scaletta o delle maniglie mobili. Ora aggrappati a una maniglia, non occorre fare nient’altro.»

Procedettero senza sforzo alcuno per qualche centinaio di metri, e a un certo punto presero per un altro corridoio che si dipartiva sulla destra ad angolo retto col primo. «Adesso lascia andare la maniglia» disse Loren quando ebbero percorso qualche decina di metri. «Voglio farti vedere una cosa.»

Mirissa lasciò la presa e avanzarono per forza d’inerzia fino a fermarsi accanto a una finestra alta e stretta che si apriva nella parete del corridoio.

Mirissa guardò e vide una sorta di enorme caverna di metallo molto illuminata. Aveva perso del tutto l’orientamento, ma immaginò che quel grande compartimento cilindrico dovesse essere lungo quanto tutta la nave e che la grossa barra di metallo fosse disposta esattamente lungo l’asse della Magellano.

«Il motore quantico» spiegò Loren con orgoglio.

Loren non cercò nemmeno di dirle cos’erano le grandi macchine di metallo e di cristallo, gli archi rampanti di foggia bizzarra che sporgevano dalle pareti, le costellazioni di luci pulsanti, la sfera nerissima che sebbene fosse perfettamente liscia pareva ruotare velocemente… Ma dopo un poco disse:

«La realizzazione più grande dell’umanità… l’ultimo dono della Terra ai suoi figli. Un giorno farà di noi i signori della galassia».

C’era una tale arroganza nella voce di lui che Mirissa ebbe un soprassalto. Colui che parlava era il Loren di una volta, il Loren non ancora ammorbidito da Thalassa. Sia pure, pensò Mirissa; ma una parte di lui è cambiata per sempre.

«Credi che la galassia se ne accorgerà?» gli chiese senza ironia.

Però Mirissa era rimasta molto colpita, e per lungo tempo rimase a guardare le grandi forme incomprensibili che avevano portato Loren fino a lei attraverso cinquanta anni luce. Non sapeva se benedirle per ciò che le avevano portato o maledirle per ciò che stavano per sottrarle.

Loren la guidò attraverso il labirinto fin dentro il cuore della Magellano.

Non incontrarono nessuno; si percepiva che la nave era enorme, e l’equipaggio poco numeroso.

«Siamo quasi arrivati» disse Loren in un tono ora pacato e solenne. «E questo è il Guardiano.»

Presa del tutto alla sprovvista, Mirissa continuò a fluttuare verso il volto d’oro che la fissava da dentro una nicchia rischiando di finirvi contro. Lo toccò e sentì il freddo del metallo. Dunque era vero, e non, come aveva pensato, un ologramma.

«Ma cosa… chi è?» sussurrò.

«Abbiamo a bordo molti dei più grandi tesori d’arte della Terra» fece Loren con orgoglio. «Questo è uno dei più famosi. Era un re che morì molto giovane, quando era ancora un ragazzo…»

La voce di Loren si spense mentre entrambi pensavano alla stessa cosa.

Mirissa dovette sbattere le palpebre per ricacciare le lacrime prima di leggere l’iscrizione sotto la maschera.

TUTANKHAMON 1361–1353 a.C.

(Valle dei Re, Egitto, 1922 A.D.) Sì, era morto quasi alla stessa età di Kumar. Il volto d’oro li fissava attraverso i millenni e gli anni luce — il volto di un dio giovinetto abbattuto nel momento del suo splendore. Vi si leggeva il potere e la sicurezza, ma non ancora l’arroganza e la crudeltà che gli anni vi avrebbero impresso.

«Perché è qui?» chiese Mirissa già intuendo la risposta.

«Ci è sembrato un simbolo molto appropriato. Gli Egiziani credevano che se si eseguivano certi riti il defunto avrebbe continuato a vivere in un altro mondo. Nient’altro che una superstizione, naturalmente… eppure noi l’abbiamo resa vera.»

Ma non come io avrei voluto, pensò tristemente Mirissa. Fissando i neri occhi del re giovinetto che la guardavano dalla maschera d’oro incorruttibile, si stentava a credere che fosse solo una meravigliosa opera d’arte e non una persona viva.

Mirissa non riusciva a distogliere gli occhi da quello sguardo calmo eppure ipnotico che la fissava attraverso i secoli. Ancora una volta tese la mano e toccò la guancia d’oro. Il metallo prezioso le richiamò d’un tratto alla mente una poesia che aveva trovato negli Archivi del Primo Atterraggio, quando col computer aveva passato in rassegna la letteratura dei secoli precedenti alla ricerca di qualche parola di consolazione. La maggior parte dei versi che il computer aveva trovato non erano adatti alla circostanza, ma c’era un distico («Autore ignoto?1800–2100») che invece si addiceva perfettamente:

Riportano lucente a chi l’ha coniata la lega dell’uomo, I giovani che muoiono nel fiore dell’età e non saranno vecchi mai.

Loren aspettò con pazienza che Mirissa finisse di meditare. Quindi inserì una tessera in una fessura quasi invisibile posta accanto alla maschera mortuaria e una porta circolare si aprì senza rumore.

Era strano trovare un guardaroba zeppo di pellicce a bordo di un’astronave, ma Mirissa ne comprendeva la necessità. La temperatura si era già abbassata di parecchio, e lei rabbrividì.

Loren la aiutò a indossare una tuta termica, cosa non facilissima, a gravità zero, e quindi avanzarono fluttuando verso un’apertura circolare chiusa da una lastra di vetro smerigliato posta in fondo al guardaroba. La lastra di cristallo si spalancò verso di loro come un vetro di orologio che si apre, e ne uscì un soffio di aria così fredda come Mirissa non aveva non solo mai sperimentato, ma neppure immaginato. Nuvolette di vapore si condensarono nell’aria danzando attorno a lei quasi fossero fantasmi.