Si girò indecisa verso sinistra, perché il senso di pericolo sembrava provenire anche da quella direzione. Levò lo sguardo, attratta dalla Stella Rossa che da qualche tempo aveva incominciato a dominare il cielo mattutino. La stella irradiò un’ultima pulsazione color rubino, prima che il suo splendore si perdesse nella luce sfolgorante del sole di Pern. Frammenti sconnessi e incoerenti di favole e di ballate, che parlavano dell’apparizione mattutina della Stella Rossa, le sfrecciarono nella mente, troppo fulminei per avere un senso. E l’istinto le diceva che, sebbene il pericolo potesse giungere anche da Nord-Est, una minaccia ancora più grave si stava profilando da oriente. Aguzzò gli occhi, come se la vista potesse varcare l’abisso tra il pericolo e lei, e fissò assorta verso Est. L’interrogativo fievole, zufolato del wher da guardia, la raggiunse proprio nell’istante in cui la precognizione svaniva.
Lessa sospirò. In quell’alba non aveva trovato una spiegazione, ma soltanto prodigi in contrasto fra loro. Doveva aspettare. L’avvertimento era giunto, e lei lo aveva accettato. Era abituata ad aspettare. Le altre sue armi erano la perversità, la costanza e l’astuzia, cariche della pazienza inesauribile della consacrazione alla vendetta.
La luce dell’alba illuminò il paesaggio sconvolto, i campi incolti della valle sottostante, scese sugli orti maltenuti, dove i branchi sparsi del bestiame da latte andavano alla ricerca delle erbe primaverili. A Ruatha, pensò Lessa, l’erba cresceva dove non avrebbe dovuto spuntare, e moriva dove avrebbe dovuto abbondare. Ormai faticava a ricordare l’aspetto che un tempo aveva avuto la Valle di Ruatha, dolce, felice, ricca. Prima dell’arrivo di Fax. Un bizzarro sorriso pensoso le incurvò le labbra disabituate a sorridere. Fax non traeva nessun vantaggio dalla conquista di Ruatha… e non lo avrebbe mai tratto finché lei, Lessa, era ancora viva. E Fax non sospettava neppure lontanamente la causa di quella decadenza.
O forse lo sospettava, pensò Lessa, la mente ancora echeggiante di quella selvaggia precognizione del pericolo. A occidente sorgeva la Fortezza avita di Fax, la sola che gli appartenesse legittimamente. A Nord-Ovest c’era ben poco, oltre le montagne nude e rocciose, e il Weyr che proteggeva Pern.
Lessa si stiracchiò, inarcando il dorso, aspirando il vento dolce e incontaminato del mattino.
Nel cortile delle stalle un gallo cantò. Lessa si girò di scatto su se stessa, il volto teso, gli occhi che sfrecciavano all’esterno del Forte, per accertarsi che nessuno la stesse osservando in quella posa così poco caratteristica. Si sciolse i capelli, lasciando ricadere la massa disordinata perché le nascondesse il viso. Il suo corpo si piegò nella postura aggobbita e sciatta che ostentava sempre. Scese a precipizio le scale, avviandosi verso il wher da guardia che gemeva pietosamente e sbatteva i grandi occhi abbagliati dalla luce sempre più intensa del giorno. Ignorando il puzzo del suo alito fetido, Lessa abbracciò la testa scagliosa, grattandone le orecchie e le orbite. Il wher da guardia, in un’estasi di piacere, tremava in tutto il lungo corpo: le ali tarpate frusciavano. Era il solo a sapere chi fosse lei. Ed era l’unico essere, in tutto Pern, di cui lei si era fidata, a partire da quel mattino in cui aveva cercato disperatamente rifugio nel covile buio e fetido, per sfuggire alle spade assetate che avevano bevuto già tanto sangue ruathano.
Si rialzò lentamente, raccomandando al wehr di mostrarsi cattivo con lei come con tutti gli altri, quando vi era qualcuno nelle vicinanze. L’animale promise di obbedirle, ondeggiando avanti e indietro per sottolineare la propria riluttanza.
I primi raggi del sole si affacciarono sopra le mura esterne del Forte; il wher da guardia, gridando, saettò nello sua tana scura. In fretta, Lessa ritornò alla cucina, rientrò nel magazzino dei formaggi.
F’lar, sul grande collo del bronzeo Mnementh, fu il primo ad apparire nel cielo, al di sopra della Fortezza principale di Fax, sedicente signore delle Terre Alte. Dietro di lui, in una perfetta formazione a cuneo, apparirono gli altri. F’lar controllò automaticamente la formazione: era esatta come nel momento del loro ingresso in mezzo.
Mentre Mnementh descriveva un arco che li avrebbe portati al perimetro del Forte, come si conveniva al carattere amichevole della visita, F’lar osservava con crescente avversione lo stato malconcio delle difese. Le fosse delle pietre focaie erano vuote, ed i canali tagliati nella roccia che si irradiavano dalle fosse erano coperti da uno strato verdastro di muschio.
Esisteva ancora un solo Signore, in tutto Pern, che conservasse la sua Fortezza tutta di pietra, in obbedienza alle antiche Leggi? F’lar strinse le labbra. Una volta che avesse concluso la sua Cerca e fosse stato impresso lo Schema di Apprendimento sarebbe stato giusto tenere al Weyr un solenne Concilio punitivo. E per il guscio d’oro della regina, lui, F’lar, aveva intenzione di esserne il moderatore. Avrebbe sostituito l’attività al letargo. Avrebbe estirpato la faccia verde e pericolosa dalle alture di Pern, le erbe verdi dai suoi edifici. In nessuna fattoria sarebbe stata ammessa una cintura verdeggiante. E le dècime che erano state versate con tanta avarizia e con tanto malanimo, sotto la minaccia delle pietre focaie, sarebbero affluite con debita generosità nel Weyr dei draghi.
Mnementh emise un rombo di approvazione mentre ripiegava le ali per atterrare leggermente sulle pietre inframmezzate d’erba della Fortezza di Fax. Il drago bronzeo finì di ripiegare le grandi ali, e F’lar udì risuonare la sirena d’allarme della Grande Torre del Forte. Mnementh si accucciò, quando F’lar gli indicò che voleva smontare. Il giovane rimase fermo accanto all’enorme testa aguzza di Mnementh, aspettando educatamente l’arrivo del Signore della Fortezza. Guardò pigramente la valle, avvolta nella foschia dal caldo sole primaverile. Non badò alle facce furtive che lo sbirciavano dalle feritoie dei parapetti e dalle finestre aperte nella roccia.
Non si voltò quando un soffio d’aria lo investì, annunciando l’arrivo del resto del suo squadrone. Si accorse tuttavia che F’nor, il cavaliere marrone suo fratellastro, aveva assunto l’abituale posizione alla sua sinistra, a una lunghezza di drago dietro di lui. Con la coda dell’occhio, lo vide schiacciare con il tacco dello stivale l’erba che spuntava tra le pietre.
Dal grande Cortile, oltre le porte spalancate, uscì un ordine, smorzato in un intenso bisbiglio. Quasi subito apparve un gruppo di uomini, guidati da un individuo robusto, di media statura.
Mnementh inarcò il collo, piegando la testa in modo da posare il mento al suolo. Gli occhi sfaccettati del drago, che si trovavano all’altezza della testa di F’lar, si fissarono con sconcertante interesse sul drappello che si avvicinava. I draghi non riuscivano mai a capire perché suscitassero, nella gente comune, una paura così irrefrenabile. In un solo momento della sua vita, un drago era capace di aggredire un essere umano; e la cosa era giustificabile, data la sua ignoranza. F’lar non poteva spiegare al drago le ragioni politiche che imponevano la necessità di ispirare paura agli abitanti delle Fortezze, sia al Signore che agli artigiani. Poteva soltanto constatare che la paura e l’apprensione dipinte sui volti di quegli uomini, sebbene turbasse Mnementh, a lui, F’lar, dava uno strano senso di soddisfazione.
«Benvenuto, bronzeo Cavaliere del Drago, alla Fortezza di Fax, Signore delle Terre Alte. Egli è al tuo servizio.» L’uomo eseguì un saluto adeguatamente rispettoso.
L’uso della terza persona poteva venire considerato, a voler essere meticolosi, come un insulto velato. Il particolare quadrava con ciò che F’lar sapeva di Fax; e quindi lo ignorò. Le informazioni erano esatte anche nel descrivere Fax come un individuo avido. I suoi occhi irrequieti saettavano annotando ogni dettaglio dell’abbigliamento di F’lar, e la fronte si aggrottò lievemente quando egli scorse l’impugnatura della spada, elegantemente intarsiata.