Mentre l’animale dorato, gridando penosamente, scendeva a balzi pesanti dal rialzo per inseguire le giovani donne, Lessa si mosse. Ma perché quella stupida non si era scostata, pensò mentre cercava di afferrare la testa aguzza, non molto più grossa del suo corpo. Il drago era così goffo e così debole…
Girò la testa dell’animale, in modo che gli occhi sfaccettati fissassero i suoi… e si perdette in quello sguardo d’arcobaleno.
Un senso di gioia la invase: una sensazione di calore, di tenerezza, di affetto incontaminato, di rispetto e di ammirazione dilagarono in lei, mente, cuore e anima. Mai più, mai più le sarebbe mancato un sostegno, un difensore, un amico intimo, immediatamente conscio dei suoi umori e dei suoi desideri. Com’era meravigliosa Lessa! Quel pensiero s’insinuò tra le sue riflessioni: com’era bella, com’era buona, e premurosa, e coraggiosa e intelligente!
Meccanicamente, Lessa tese la mano per grattare il punto esatto, sopra la morbida arcata sopraccigliare.
Il drago femmina la fissò battendo le palpebre, malinconicamente, infinitamente triste per averle causato preoccupazioni. Lessa accarezzò, con un gesto rassicurante, il collo morbido e leggermente umido che si incurvava fiduciosamente verso di lei. Il drago perse l’equilibrio, pencolò da un lato: un’ala s’impigliò nella zampa posteriore, dolorosamente. Lessa sollevò con cura la zampa, liberò l’ala, la ripiegò con una carezza sulla cresta dorsale.
Il drago cominciò a cantilenare, dal fondo della gola, seguendo con gli occhi ogni sua mossa. Cozzò dolcemente con la testa contro di lei: obbediente, Lessa incominciò a grattare l’altra arcata sopraccigliare.
Il drago le fece sapere che aveva fame.
«Ti troveremo subito da mangiare,» le promise decisa Lessa, e si voltò a guardarla, sbalordita. Come poteva essere tanto insensibile? Quel piccolo mostro aveva ferito gravemente due donne, se pure non le aveva uccise.
Non riusciva a credere che tutta la sua simpatia si fosse orientata con tale rapidità verso quella bestia. Eppure per lei era la cosa più naturale del mondo desiderare di proteggere quella piccola.
Il drago inarcò il collo per fissarla negli occhi. Ramoth ripeté malinconicamente di avere una fame terribile, dopo essere stata chiusa per tanto tempo nell’uovo, senza nutrimento.
Lessa si chiese come poteva sapere il nome del drago dorato, e Ramoth le rispose: perché non doveva conoscere il suo nome, dato che era suo e di nessun’altra? Poi Lessa si perse nel prodigio di quegli occhi meravigliosamente espressivi.
Dimentica della discesa dei draghi bronzei, dimentica della presenza dei loro cavalieri, Lessa continuò ad accarezzare la testa della creatura più straordinaria di tutta Pern, in una precognizione piena di sofferenze e di trionfi, ma consapevole soprattutto che Lessa di Pern era la Dama del Weyr, compagna di Ramoth l’Aurea, ora e per sempre.
II
VOLO NUZIALE
«Se una regina non è fatta per volare, allora perché ha le ali?» chiese Lessa. Stava mettendo veramente tutto il suo impegno nel mantenere un tono dolce e ragionevole.
Era stata costretta a imparare che, sebbene la sua indole fosse bollente, doveva bollire in modo molto discreto. A differenza dei comuni pernesi, i dragonieri erano capaci di percepire ogni violenta atmosfera emotiva.
R’gul aggrottò le pesanti sopracciglia, sbalordito, strinse i denti in uno scatto esasperato. Lessa sapeva già la risposta, prima ancora che lui la pronunciasse.
«Le regine non volano,» disse infatti, in tono secco.
«Solo per accoppiarsi,» lo corresse S’lel. Aveva sonnecchiato sino a quel momento, come faceva molto spesso, sebbene fosse più giovane dell’energico R’gul.
Stanno per discutere di nuovo, pensò Lessa, gemendo fra sé. Lei ce l’avrebbe fatta a resistere per mezz’ora, ma poi le si sarebbe rivoltato lo stomaco. Il loro metodo per istruire la nuova Dama del Weyr nei «doveri verso il Drago femmina, il Weyr e Pern» degenerava troppo spesso interminabili discussioni su particolari insignificanti delle lezioni che lei doveva imparare a memoria e recitare alla lettera. Talvolta, come in quel momento, lei accarezzava l’esile speranza di poterli avviluppare strettamente nelle loro stesse contraddizioni, in modo che si lasciassero sfuggire, senza accorgersene, un paio di verità.
«Una regina vola solo per accoppiarsi.» R’gul accettò la rettifica.
«Ma senza dubbio,» disse Lessa, con pazienza tenace, «se può volare per accoppiarsi, può volare anche altre volte.»
«Le regine non volano.» R’gul aveva un’espressione ostinata.
«Jora non aveva mai fatto volare un drago,» borbottò S’lel, e sbatté le palpebre, perduto nei ricordi del passato. Aveva un’aria un po’ turbata. «Jora non lasciava mai questi appartamenti.»
«Portava Nemorth ai campi del pasto,» scattò a questo punto R’gul, in tono irritato.
Lessa si sentì soffocare dalla rabbia. Deglutì. Avrebbe dovuto costringerli ad andersene. Si sarebbero accorti che Ramoth si svegliava, talvolta, con troppo tempismo? Forse avrebbe fatto meglio a destare Hath, il drago di R’gul. Si concesse mentalmente un sorriso d’orgoglio per la sua capacità segreta di comunicare con tutti i draghi del Weyr, verdi, azzurri, marroni o bronzei. Quel pensiero la rasserenò per un istante.
«Quando Jora riusciva a indurre Nemorth a muoversi,» brontolò S’lel, tirandosi il labbro inferiore con fare preoccupato.
R’gul lanciò un’occhiataccia a S’lel per azzittirlo; e appena vi riuscì, batté con aria decisa sulla tavoletta di Lessa.
Soffocando un sospiro, lei riprese lo stilo. Aveva già scritto nove volte quella ballata in modo perfetto. Il dieci, a quanto sembrava, era il numero magico, per R’gul. Infatti le aveva fatto scrivere per dieci volte tutte le tradizionali Ballate dell’Insegnamento, le Saghe della Catastrofe e le Leggi, parola per parola. Lei non ne aveva capito la metà, questo era vero: però le conosceva a memoria.
«I mari ribollono, le montagne si muovono,» scrisse.
Era possibile. Se ci fosse stato un grandioso sommovimento interno della terra. Una delle guardie di Fax, alla Fortezza di Ruath, aveva raccontato una volta una storia dei tempi del suo bisavolo. Un intero villaggio costiero, dalle parti di Fort, era franato in mare. Quell’anno c’erano state maree mostruose al di là di Ista, si diceva, nello stesso tempo era affiorata una montagna, eruttando fuoco dalla vetta. Anni dopo, era nuovamente sprofondata. Poteva darsi che il verso si riferisse a quell’avvenimento. Forse.
«Le sabbie si riscaldano…» Vero, si diceva che in estate la Piana di Igen diventasse una cosa tremenda. Non un filo d’ombra, non un albero né una grotta, solo un tetro deserto di sabbia. Persino i dragonieri evitavano quella zona, in piena estate. Anzi, pensandoci bene, anche le sabbie del Terreno della Schiusa erano sempre calde. Chissà se qualche volta si scaldavano al punto di bruciare? E poi, che cosa le riscaldava? Gli stessi invisibili fuochi sotterranei che rendevano tiepida l’acqua delle vasche da bagno di tutto il Weyr di Benden?
«I draghi provano…» Era una frase ambigua e si prestava a una mezza dozzina di interpretazioni, ma R’gul non ne aveva mai esposta una che fosse ufficiale. Voleva dire: I draghi provano che la Stella Rossa passa? Come? Lanciando un grido speciale, simile a quello che emettevano quando un loro simile andava a morire in mezzo? Oppure i draghi davano buona prova di sé, in un modo o nell’altro, mentre passava la Stella Rossa? Oltre, naturalmente, a svolgere la loro funzione tradizionale che consisteva nel bruciare i Fili caduti dal cielo? Oh, quante cose non dicevano quelle ballate… e nessuno dava mai spiegazioni. Eppure, in origine, doveva esserci stata una ragione…